Dean, Favini, Grimaldi, Hendrikse, Hsieh, Karlsson, Petercol, Petitgand, Vitone: This is the time (and this is the record of the time)
“This is the time (and this is the record of the time)”* riunisce nove artisti, diversi per età e provenienza geografica. Si va da un giovane inglese alle sue prime mostre in spazi ufficiali, Michael Dean, a un performer americano di origine taiwanese, Tehching Hsieh, attivo fra la fine degli anni '70 e il 1999, pressoché sconosciuto nel nostro Paese ma considerato “un maestro” da Marina Abramovič. Alcuni di essi (oltre a Dean e Hsieh, Paul Hendrikse) presentano il loro lavoro in Italia per la prima volta.
Il titolo della mostra è una sintesi estrema del suo contenuto. Da una parte, opere che mostrano lo scorrere del tempo mentre è in atto; dall'altra, opere che ne conservano la traccia. Da una parte, processi in corso; dall'altra, registrazioni (grafiche, video, sonore) di processi già avvenuti. Da questo punto di vista, si potrebbe pensarla come un gruppo di metronomi. Alcuni battono ancora il tempo, ognuno su una velocità diversa; altri hanno già esaurito la carica, ma la loro regolazione permette di capire quale ritmo scandivano. (La somiglianza di questa immagine con un lavoro storico di Enrico Castellani, Muro del tempo, non è del tutto casuale). E l'unità ritmica, il battito, può essere di cinque secondi, dieci minuti, quattro giorni, due settimane. Non sono esempi in astratto, ma i cicli reali di alcune delle opere selezionate. In realtà, questa è una semplificazione, e le cose sono più ambigue e intricate. Video e registrazioni sonore sono sia un'eco del passato, sia una presenza attiva: hanno scandito il tempo dei loro autori, ora, con i loro loop, scandiscono quello degli spettatori. Il lavoro di Tehching Hsieh è basato sull'arco di tempo di un anno, ma lo restituisce nella durata effettiva di sei minuti. Altre opere, infine, manifestano il tempo come il risultato di un compito manuale, di cui è possibile ricostruire la dinamica solo in modo approssimativo.
A un livello immediato, la scansione della durata è affidata a mezzi semplici, concreti, oggettivi: una voce che conta da uno a cento (Luca Vitone, Dominique Petitgand), il lento esaurirsi della carica elettrica di un light box (Massimo Grimaldi), il passaggio di una nuvola davanti a una montagna (Paul Hendrikse), il gesto di piegare la carta (Michael Dean) o di forarla con uno spillo (Ettore Favini). Trattandosi di una materia capitale come il tempo, però, qualunque cosa, anche la più elementare, tende ad assumere una carica simbolica - e una tonalità esistenziale. Un rotolo di carta termosensibile che si scurisce lentamente, passando dal bianco al nero (Albin Karlsson), evoca immediatamente il ciclo giorno/notte, e fa pensare alla sua irreversibilità. Il tentativo di tracciare l'ombra sempre sfuggente gettata dalla matita sul foglio (Goran Petercol) parla anche dell'impossibilità di trattenere il presente. E così via, fino ad opere che esprimono più esplicitamente caducità e obsolescenza.
Nella misura in cui si concede un'inflessione emotiva (ed è una misura abbastanza ridotta), la mostra è perciò malinconica. Non ci sono clessidre, né fiori appassiti, né alcun altro dei simboli codificati della vanitas, qui, ma è probabile che sorgano nello spettatore associazioni di questo genere. L'augurio è che le opere, singolarmente e nel loro insieme, agiscano come un meccanismo emotivo anti-entropico; che il piacere dell'arte non solo compensi, ma superi l'eventuale dispiacere del suo contenuto.
Era la convinzione di Giacomo Leopardi, quasi due secoli fa, ed è anche la nostra.
(Simone Menegoi)
La questione del tempo è connaturata all'uomo, ovvero è un fatto del tutto soggettivo, che consiste nello sforzo di confrontarsi, per afferrarlo o descriverlo, con qualcosa che per sua stessa natura è sfuggente, o inattingibile. Si presume che essa non riguardi le piante né gli insetti o alcuna altra specie animale oltre alla nostra: tutti questi esseri si rimettono alla guida delle mutazioni stagionali, che hanno piuttosto a che fare col tempo atmosferico, e sono esperite attraverso i sensi, con l'alternarsi di caldo e freddo, buio e luce.
Agostino d'Ippona scrisse, a proposito dell'idea di tempo: “Allora che cos'è? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so”, e questo assunto rimane il commento più pregnante all'intera questione, e agli esempi che continuamente si manifestano in tutti i campi dell'espressione cosiddetta 'artistica', cioè tutto quel fare e dire che si sottrae al vincolo dell'utile e del contingente.
La dimensione-tempo è indescrivibile, non le si può dare una forma rigida, perché muta a seconda delle circostanze dell'evento, e delle condizioni del soggetto che lo vive o che vi assiste. Averne, talvolta, una intensa percezione ‘anormale’ è frutto di un'esperienza personale, vissuta in un attimo fugace nel corso del quale ci si trova in una condizione di precario equilibrio, sospesi sul vuoto: in quel vuoto momentaneo è sospesa quella certa idea del tempo, e parlarne per descriverla equivale a rompere quell'equilibrio (“La storia degli uomini è un attimo tra due passi di un viandante”, Franz Kafka). Perciò, le opere che più si avvicinano alla resa migliore di questa percezione in realtà la evocano, trasmettendoci, per un istante, quella sensazione di precario equilibrio, come di chi è sul punto di cadere, un attimo dopo aver spiccato un salto, o un volo. Forse si potrebbe dire che l'arte stessa, soprattutto nella sua accezione occidentale, sia rappresentando sia evocando quella percezione, è sempre un tentativo di ‘fermare il tempo’, trattenendolo cioè in una forma, e questo tentativo segue alla constatazione, da parte di un 'soggetto creatore', dei segni, nelle cose e nelle persone, che testimoniano di un costante movimento, e mutazione, delle cose e delle persone.
La performance del 1980-81 di Teching Hsieh (uno degli artisti in mostra, americano di origine taiwanese, nato il 31 dicembre del 1950, ha ufficialmente smesso di fare arte il 31 dicembre del 1999) durò esattamente un anno, durante il quale l'autore doveva timbrare, allo scadere di ogni ora per tutti i giorni, una cartolina emessa da una macchina bollatrice da ufficio, per testimoniare così il rispetto dell'impegno preso, compiendo un atto assolutamente gratuito, senza alcun legame con un qualsiasi lavoro retribuito. La performance fu documentata da una foto-camera, che scattò diverse migliaia di immagini, 24 (salvo sporadicissime, involontarie, eccezioni) per ogni giorno, e il film di animazione in 'stop-motion' realizzato con quelle immagini, della durata di circa 6 minuti, è un prodotto fantastico, lo scarto insignificante di un anno di vita, tutto dedicato a quell'unica in-utile occupazione. Hsieh realizzò fra la fine dei '70 e gli '80, oltre a questa, alcune altre performance “di un anno” (one year performances): in tutte è immancabile, e fondamentale, la presenza della figura del testimone, colui o colei che assiste all'evento (o a parti di esso) e ne certifica la verità.
Questa figura, grazie alla sua estraneità rispetto all'esperienza dell'autore (che, ad esempio nella performance citata, sovrappone il proprio tempo personale, annullandolo, al tempo scandito dall'orologio, escludendosi da ogni possibilità di 'essere' al di fuori di quello) è il termine di paragone, apparentemente neutro e passivo (ma effettivamente in bilico fra oggettività e soggettività), che aiuta a far scattare in noi la percezione dell'alterità dell'esperienza di Hsieh, il suo essere 'fuori dal tempo', che è poi il tempo stesso del testimone, nel quale possiamo riconoscerci, come nella normalità**.
Il testimone, allora, come termine di comparazione a cui riferirsi per misurare il tempo, e misurare quindi le nostre azioni in termini temporali. E il nostro principale testimone del tempo, almeno di quello più breve (per quello più lungo, il calendario) da qualche secolo è l'orologio, che sostituì, dopo millenni, la meridiana. Ma mentre quella era inconfutabile, sovrumana, dipendendo solo dall'inarrestabile movimento del sole, questo, sia meccanico o elettronico, sempre più o meno a termine, influenzabile da una lunga serie di condizionamenti esterni, è labile e inaffidabile, e spesso sentiamo il bisogno di consultarne non uno soltanto ma due, tre o più.
Talvolta, ma sempre più raramente, si trovano, magari in qualche stazione ferroviaria, o in qualche trattoria di paese, vecchi orologi, funzionanti sì, ma in modo del tutto anomalo, irregolare e intermittente, né accumulando un progressivo piccolo anticipo, né accusando un modesto ritardo altrettanto progressivo, ma indicando un'ora altra, che gli appartiene, in qualche modo, autisticamente, misura per noi inquietante perché imperscrutabile e sottratta al nostro condizionamento, come un albero in un bosco d'alta montagna, o un pesce d'alto mare. Uno di questi orologi, ormai molto rari, quasi introvabili, potrebbe entrare a pieno diritto a far parte dei lavori esposti in questa mostra.
(Carlo Fossati - da "A question of balance / Una questione di equilibrio", 2007)
*: Il titolo della mostra viene da un verso della canzone From the Air di Laurie Anderson, tratta dall'album Big Science (1982).
**: Cormac Mc Carthy, in un passo del suo romanzo “Oltre il confine” (in originale “Crossing”, attraversamento o sconfinamento, appunto, titolo decisamente appropriato per definire esperienze di straniamento dal comune concetto di tempo - si può parlare infatti di sconfinamento, o di delirio, nel senso etimologico del termine) definisce molto bene questa figura: “Gli atti esistono se esiste un testimone. Senza un testimone, chi ne può parlare? In ultima analisi si potrebbe perfino dire che l'atto non è nulla e che il testimone è l'unica cosa che conta”.
Si ringraziano per la loro gentile collaborazione le gallerie: Alessandro De March, Milano; Emi Fontana, Milano; gb agency, Parigi; Gregor Podnar, Lubiana; Suzy Shammah, Milano; Zero..., Milano. Un ringraziamento particolare a Renato Alpegiani.
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Tehching Hsieh. A question of time, di Simone Menegoi | 55.24 KB |
Una questione di equilibrio, di Carlo Fossati | 49.16 KB |